ALDO CAROTENUTO E L’INDIVIDUAZIONE

 

[…] Và, figlio, con la mia benedizione,
e imprimiti a caratteri di stampa
nella tua mente queste poche regole:
[…] accogli sempre l’opinione altrui,
ma pensa a modo tuo…

[…] Ma soprattutto tieni questo in mente: sii sempre, e resta, fedele a te stesso;
ne seguirà, come la notte al giorno,
che non sarai sleale con nessuno.
Addio, figlio. La mia benedizione
trapianti e faccia maturare in te
questi pochi precetti di tuo padre.

Amleto

Atto I, Scena II
La chiamata verso se stessi

Quando nell’Amleto Shakespeare ci presenta Polonio che consiglia suo figlio Laerte dicendo: “sii sempre, e resta, fedele a te stesso; ne seguirà, come la notte al giorno, che non sarai sleale con nessuno”, un intero mondo interiore è chiamato a rivelarsi ed a superare lo squarcio doloroso tra ciò che noi veramente siamo – quando siamo fedeli a noi stessi – e i ruoli che interpretiamo sulla scena sociale. Da Shakespeare a Freud, questo tema acquisisce sempre più centralità fino alla sua celebrazione nel concetto di “processo di individuazione” junghiano o in quello del “tradimento come fedeltà a se stessi” di Aldo Carotenuto.

Ciò che oggi intendiamo per “sincerità” è qualcosa di piuttosto recente nella vita etica della cultura europea. Lionel Trilling, scrittore americano, nel suo libro più recente[1] lo colloca nel periodo a cavallo tra la società medievale ed il mondo moderno, tra il sec. XVI e XVII (periodo nel quale visse Shakespeare). In questo periodo gli storici situano una grande trasformazione nella vita interiore dell’uomo: la chiamata verso ciò che un uomo più ardentemente desidera e la vera fonte di gioia e felicità, “essere se stessi”. Felicità questa frequentemente inquinata dai panni-ruoli sociali che siamo chiamati, a volte persino costretti, a indossare.

Dai primordi dell’idea di “sincerità” in Shakespeare all’acuta coscienza dei ruoli sociali in autori più moderni come Pirandello, Jean-Paul Sartre, Guy de Maupassant, James Joyce e tanti altri, la tensione tra l’io autentico e le maschere sociali ha segnato la storia del mondo moderno e Carotenuto stesso, consapevolmente, non sfuggì mai a questa contraddizione in tutta la sua ironia e lacerazione: da un lato il sentimento di prigionia nella “maschera” prestigiosa di professore universitario, psicoanalista rinomato e scrittore di successo, costruita durante la sua lunga carriera; dall’altro, la sua dimensione più autentica e creativa; quel “qualcosa che gli urlava dentro”, e gli chiedeva totale libertà.

Individuazione/iniziazione

Nell’intento di spiegare il “processo di individuazione”, cardine della psicologia junghiana e della sua terapia, Carotenuto amava citare come esempio la “musicalità della lingua”, quell’accento particolare, gesti o espressioni tipiche di un determinato contesto socio-culturale, che riusciamo a vedere chiaramente in ogni persona che incontriamo. Meno evidente, sottolineava il maestro, è “tutto il resto”, tutto ciò che “beviamo con il latte”, come si usa dire, dalla famiglia e dall’ambiente circostante: atteggiamenti, valori, visione del mondo, modalità comunicative più o meno sottili, tipiche di una determinata comunità o nazione. Questi valori o atteggiamenti che “facciamo nostri”, e che generalmente non ci appartengono, ad uno sguardo sensibile appaiono chiaramente posticci. Valori e atteggiamenti dei quali ci siamo appropriati proprio come ci siamo appropriati dell’accento con cui parliamo e dei nostri gesti abituali.

Il “processo di individuazione” prevede la ricerca, al di là della “maschera” sociale, della nostra vera identità e l’ascolto della nostra voce interiore: quella flebile voce che generalmente viene soffocata dal rumore del mondo e non viene mai presa in considerazione. È un percorso di consapevolezza di noi stessi e di differenziazione dalla “voce del coro”, da tutti quei dettami che provengono dal mondo esterno. Voce che abbiamo interiorizzata e che esprime ciò che Jung chiamerà “valori collettivi”.

Dal momento che viviamo un’esistenza che è condizionata dagli altri, la piena realizzazione della personalità non è solamente un processo di sviluppo, ma è soprattutto un processo di decondizionamento da tutto ciò che fino a quel momento ci ha reso ben adattati e integrati in un determinato contesto sociale. Giordano Bruno affermava che “arriverà il giorno nel quale l’uomo si sveglierà dall’oblio e finalmente comprenderà chi egli è realmente e a chi o a cosa ha ceduto le redini della sua esistenza, ad una mente falsa, menzognera che lo tiene schiavo”. Un percorso “rischioso”, da un certo punto di vista, ma che ci consente di ritrovare quei valori autentici, fondamentali per la nostra vita, che Jung chiama appunto “valori individuali”. Se non esistesse questo impulso di differenziazione e trascendenza la vita non sarebbe altro che un’esistenza indifferenziata, per certi versi grezza, più vicina all’esistenza animale, come quella di molte persone che, ci ammonisce Carotenuto, non sospettano neppure che dietro la loro maschera di adattamento si compia il tradimento di un intero mondo interiore, dell’autentico , soffocato dai dettami e dai valori della coscienza collettiva.

Il condizionamento dal mondo esterno può essere anche positivo, in quanto ci troviamo in costante relazione con “gli altri” e non possiamo e non dobbiamo fare a meno della vita comunitaria. Accade spesso che i valori individuali coincidano con quelli collettivi, ma anche in questo caso questi devono essere frutto di un’autentica ricerca interiore, devono essere ogni volta conquistati, solo così acquisiscono vita propria ed un autentico significato. Lo sviluppo della personalità è, quindi, un processo che trascende le naturali tappe evolutive attraverso le quali una persona raggiunge la maturità ed un adeguato adattamento alla collettività. Il vero fallimento esistenziale è, in questo senso, quello di “non vivere la propria vita”: di identificarsi con la “maschera” e aderire acriticamente ai valori collettivi. “Ogni vita non vissuta rappresenta un potere distruttore e irresistibile che opera in modo silenzioso ma spietato”, afferma Jung.

Secondo P.D. Ouspensky quando un uomo inizia a conoscere se stesso comprende che i suoi pensieri, idee, abitudini, le stesse colpe, lodi o infamie, tutto ciò con cui fino a quel momento si è identificato non gli appartiene veramente: “tutto si è formato per imitazione, oppure è stato copiato da qualche parte, tale e quale”. L’uomo che riesce a sentire tutto ciò sente fino in fondo la propria nullità. “Svegliarsi” per Ouspensky significa prima di tutto rendersi consapevole del proprio essere nulla ed avviarsi ad un processo di “disipnotizzazione”.

Molte volte, durante le sedute iniziali di una terapia, si ha l’impressione che la voce della persona che ci sta davanti e che ci parla non sia veramente sua. Appare molto chiaro che le opinioni, espressioni, pensieri che ascoltiamo siano prive dell’essenza vitale, siano parole morte, parole che sembrano posticce e a volte persino stridenti: qualcun’altro o qualcos’altro parla per bocca sua… ma chi parla? Forse il padre o la madre, l’attore di grido, forse un titolo di giornale o uno spot pubblicitario. Con il procedere delle sedute, molto lentamente la flebile voce autentica racchiusa dentro al petto si fa sentire, così come i pensieri, le idee, i valori. Le parole si ravvivano, si riempiono di verità e acquisiscono un suono diverso, un suono decisamente più gradevole.

Prendere coscienza di ciò che abbiamo di unico significa integrare non solo l’Ombra, ma anche L’Anima nei suoi vari livelli, significa unirsi con quelle parti di noi che non conosciamo (inconsce) e superare la profonda scissione. Pertanto l’individuazione viene definita come “il processo per cui un essere umano diviene ‘intero’ e si differenzia dalla psiche collettiva conscia e inconscia”. Lo scopo ultimo dell’evoluzione della personalità è proprio questo divenire “individuo”: un essere non diviso, integrato nella sua totalità di luce e ombra, maschile e femminile.

Le persone che hanno spento dentro di loro la brama per la propria ricerca interiore – inizialmente una flebile fiamma che, se assecondata, tende a divampare – sono immediatamente riconoscibili in quanto sembrano pietrificate: questa inespressività e rigidità impedisce loro di “fluire” nel fiume della vita e di accedere ad ogni ulteriore evoluzione psicologica, ma soprattutto di relazionarsi autenticamente con un altro essere umano.

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Diversità/coraggio

Affrontare la vita in un modo che non sia banale, individuale piuttosto che collettivo, significa intraprende un percorso esistenziale di ricerca interiore unico e irrepetibile che richiede una forza e un coraggio da non sottovalutare. Per Carotenuto il processo di individuazione, da lui considerato “lo scopo ultimo dell’esistere umano”, ha un costo altissimo in termini di sofferenza e prevede il passaggio obbligato attraverso la solitudine. La voce interiore “che ci urla dentro” e che cerca instancabilmente di farsi sentire in mezzo al frastuono del mondo a volte può essere tiranna, e pretendere la rinuncia alla nostra rassicurante visione del mondo… in cambio di un’assoluta libertà.

Il sacrificio, che ogni collettività esige dai singoli, è tanto più sofferto quanto più prorompente è l’individualità. La solitudine è quindi inevitabile quando non possiamo esimerci dal prendere in mano le redini del nostro destino: dall’essere gli artefici dei nostri pensieri, motivazioni, valori e, soprattutto, responsabili della nostra vita. L’alternativa patologica è una vita falsa, confinata negli angusti limiti dei ruoli sociali, una vita che rispecchia inesorabilmente le richieste del “Coro”, le sue aspettative e definizioni. Una vita costruita su reazioni agli stimoli esterni, accompagnata da un sentimento di assoluta inutilità.

“Dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”, sosteneva Ghandi, e Carotenuto ha fatto di questo principio il leitmotiv della sua vita: attivare nell’analizzando la forza e il coraggio di venire fuori, di fare coming out, cambiamento questo che riguarda ognuno di noi nel momento in cui vogliamo esprimere ciò che veramente siamo, uccidere il drago dei luoghi comuni e dei ruoli convenzionali. Immettendo nella propria vita, fino alle sue estreme conseguenze, il principio che vorrebbe vedere attivarsi nei suoi analizzandi, Carotenuto diviene lui stesso “materia incandescente”, un catalizzatore del processo di individuazione: “se io non dialogassi continuamente con qualcosa che mi urla dentro, che preme per uscire, che fa male e che chiede il diritto di esistere, non avrei alcuna possibilità di entrare in contatto con altre persone, le quali hanno anche loro, in modo più o meno diverso, un’analoga esigenza psicologica”.

La conquista della coscienza è un opus contra naturam, ci ricorda Jung, e non possiamo legittimamente sperare di non pagare il “prezzo” richiesto (in sofferenza) per la nostra evoluzione. Per Carotenuto la conquista della consapevolezza è un atto di trasgressione, una vera e propria sfida alla natura e la nostra salvezza sembra nascere proprio da questa sfida. È il vero “peccato originale” che, come per Adamo ed Eva, significa dolore e presa di responsabilità.

“Questa sofferenza mi spingeva ad estraniarmi dai miei coetanei: ho imparato, da bambino a conoscere la solitudine, che mi accompagna tutt’ora […] Spesso mi accorgo di intuire, di sapere certe cose, ma quando cerco di parlarne non vengo capito […] Questa purtroppo è un’esperienza che bisogna imparare ad accettare. In un primo tempo può far male, può essere estremamente conturbante, poi si capisce che essa è strettamente legata alla capacità di vedere lontano, ‘dietro gli angoli’ [..] Parlando con le persone, mi accorgo di frequente che esse non sono riuscite a guardare tanto oltre”.

È spontaneo a questo punto chiedersi quale possa essere la “via reggia” per conquistare un certo margine di libero arbitrio rispetto ai condizionamenti interni ed esterni. Per Carotenuto è:

 

La via dell’amore 

Tra tutte le grandi polarità dell’universo con cui ogni uomo è chiamato a confrontarsi consapevolmente: il bene e il male, la libertà e la prigionia, il femminile ed il maschile, l’umano e il divino etc. la coppia archetipica uomo-donna è quella dove gli opposti maggiormente si attraggono, ma è contemporaneamente anche la polarità più difficile da ricongiungere. L’unione profonda tra un uomo e una donna rappresenta la più importante delle occasioni per avvicinare e riconciliare tutti gli opposti presenti in ognuno di noi (mysterium coniunctionis). Ogni esperienza vissuta o anche sofferta durante questa via ha un’importanza che va molto al di là della dimensione fisica ed è un’insostituibile palestra della nostra evoluzione.

La trasformazione della materia bruta in oro è quindi un’opus da conseguire prevalentemente a due, come descritto nella tradizione del Tantra – una delle più importanti vie iniziatiche orientali – e gli alchimisti (che spesso lavoravano in coppia) lo sapevano bene. L’Anima (o Animus), definita da Jung come la nostra controparte inconscia, una volta incarnata nel nostro amato/a è colei (o colui) capace di attivare in noi tutto il coraggio e l’ardore necessario all’azzardata ricerca di quella parte unica e irrepetibile di noi stessi che contiene il segreto di chi veramente siamo e del nostro progetto esistenziale.

Come ci ricorda Carotenuto occorre coraggio per “cadere in amore” (to fall in love) e trascendere il nostro piccolo io con tutte le sue false identificazioni. I veri psicoanalisti sono coloro che, con grande forza interiore, hanno saputo evocare, prima di tutto in se stessi, il Demone dell’Amore che caratterizza le varie fasi del percorso analitico: il maschile rimosso nella donna ed il femminile rimosso nell’uomo.

Questo incontro con l’Anima viene magistralmente descritto da Carotenuto nel suo libro Le rose nella mangiatoia. Metamorfosi e individuazione nell’Asino d’oro di Apuleio, libro ispirato a Le Metamorfosi o L’Asino d’oro di Apuleio: romanzo chiaramente iniziatico scritto quasi diciotto secoli fa, la cui trama è molto vicina al tema dell’individuazione/iniziazione, l’assunto più rappresentativo dell’opera del nostro maestro partenopeo. Riletto dall’autore in chiave moderna, il testo di Apuleio ci offre numerosi spunti di riflessione sul tema della trasformazione psicologica. Il rapporto tra Lucio – il personaggio apuleiano che nel racconto si metamorfosa infinite volte – e le differenti donne che incontra durante il suo percorso diventa lo spazio privilegiato di incontro con l’altro lato, il lato segreto dell’esistenza: una sorta di “crogiolo alchemico” all’interno del quale, in ognuna di loro, Lucio incontra se stesso.

A confronto con gli scritti kafkiani (Carotenuto, 1989), nei quali i personaggi soccombono ad una condanna definitiva ed inesorabile, la storia di Apuleio ci offre un diverso paradigma di riferimento che contempla la speranza e il riscatto. L’episodio della morte di Socrate costella in Lucio un diverso modus vivendi che presuppone una comprensione non solo intellettuale ma soprattutto emotiva e una profonda partecipazione nell’atto di vivere. Possiamo cogliere, disseminate nel testo, le tracce del cammino di morte e rinascita (individuazione/iniziazione) che il personaggio Lucio compie coraggiosamente fino in fondo: la risalita dagli inferi verso la Luce e la sua resa all’eterno fluire dell’esistenza.

Non possiamo capire fino in fondo il significato di questo percorso esistenziale se non lo abbiamo percorso noi stessi, così come non possiamo capire l’incontro con l’Ombra se non conosciamo la potenza della sua distruttività, né comprendere il concetto di Anima senza aver fatto esperienza del dolore e della sua forza raggiante nelle nostre relazioni amorose. Così avviene anche in analisi quando, dopo momenti di grande sofferenza, si acquisisce la capacità di percepire un’altra realtà, celata fino a quel momento dietro il velo delle certezze collettive. Nel testo di Apuleio solo la trasformazione di Lucio in asino, dopo tante vicissitudini, gli consentirà di avvicinarsi alla dimensione “Anima” rappresentata dalla dea egizia Iside.

Ogni percorso di auto-conoscenza è un compito interminabile che rimanda ad una concezione del­l’uomo in continua evoluzione e che rappresenta la nostra più grande libertà: libertà da un’esistenza determinata dall’eredità genetica, dal Destino, dalla nostra posizione in seno alla famiglia ed alla società. Ma la diversità ha sempre un prezzo, in quanto implica reazioni collettive ed effetti a catena non sempre di facile gestione. Diversità che, non a caso, rimane un privilegio di poche persone. Per Platone “Demone” è colui che aiuta un altro essere umano a compiere questo destino di diversità e anche Carotenuto, sulla scia del grande filosofo greco, considera la diversità qualcosa di “demoniaco” perché demoniaca è la forza che ci consente di liberarci dalla paura e mostrarci al mondo per ciò che veramente siamo.

Possiamo riconoscere in ogni persona che ha lasciato un’impronta nella nostra vita quel segno, “demoniaco” appunto, del pegno pagato: il segno del riscatto a caro prezzo della propria unicità e l’espressione di una conoscenza del mondo in termini completamente diversi da come è stato loro insegnato. Scienziati, artisti, filosofi, o più semplicemente qualcuno cha ha vissuto una vita autentica, hanno dovuto strappare a forza questa dimensione di originalità e pagare uno scotto molto alto per la propria libertà.

 

Il Tempio di Shàolín

La nostra sofferenza e i nostri sintomi stanno a significare che il vecchio “programma” (proprio come un hard disk) che ci è stato assegnato non ci appartiene più e per ciò non è più funzionante… sintomi che segnano l’inizio di un lento risveglio dall’oblio della vita interiore e che di solito definiamo depressione. A questo punto siamo chiamati alla ricerca di un’altra modalità esistenziale: la nostra. Iniziamo così scivolare lungo una discesa impervia, a volte un vero e proprio abisso, in fondo al quale c’è la vita che pulsa e che abbiamo così a lungo dimenticato. All’inizio di questa discesa abbiamo paura perché ci appare impossibile risalire. La caduta di Lucio, il personaggio apuleiano, è una risposta all’oblio di se stessi e alla stagnazione: a quel fossilizzarsi in un’unica forma, che è la vera essenza della patologia. La psiche è dinamica e variegata, come la Vita stessa e l’individuazione non è altro che un’interminabile “danza” sul ciglio dell’abisso tra l’io ed il , tra l’interno e l’esterno, attraverso la quale si esprime il significato individuale di ogni esistenza.

Fin dell’antichità abbiamo avuto a nostra disposizione molti strumenti, l’ultimo in ordine di tempo è lo strumento analitico, per tenere il passo di questa danza, raggiungere un nuovo equilibrio e riemergere dalla parte più luminosa della vita. Come in ogni percorso iniziatico degno di questo nome, la strada dell’individuazione è una sorta di rito sacrificale, nel quale ci si spoglia dai nostri ruoli abituali e dal protagonismo assoluto dell’io per accedere ad una dimensione esistenziale molto più ampia.

Ciascuno di noi è parte di un organismo più grande, l’Umanità, in seno alla quale siamo chiamati, come membri individuali, a svolgere la nostra particolare funzione. “Se io ometto di attuare sulla Terra l’umano che si esprime nell’unicità del mio essere, l’umanità viene impoverita, perché le viene a mancare quel modo di irraggiare l’umano che può promanare soltanto da me”[2], scrive Pietro Archiati.

Anticamente all’ingresso del Tempio di Shàolín, un tempio molto importante nella storia del buddhismo cinese, c’erano incisi due numeri sulla porta: da un lato il numero dei monaci che vivevano nel Tempio e dall’altro lato della porta il numero delle religioni esistenti in quel Tempio: due numeri identici. La vera libertà, quella che regnava nel Tempio di Shàolín, è la libertà di cercare e di conoscere “quell’unico modo di irraggiare l’umano che può promanare soltanto da me”. L’unica possibile espressione, in noi, della vita che scorre e del divino che ci abita.

[1] [1] Trilling, L., Sincerità e autenticità – la vita in società e l’affermazione dell’io, Editora E Realizações, São Paulo, 2014.

[2] Archiati, P., Guarire ogni giorno, Edizioni Archiati Verlag e K., Memmingen (Germania), 2007, p. 117.[2] Ibidem, p. 118