Sos emergenza spirituale – Il dolore dell’anima tra psicopatologia e misticismo

                                   SOS EMERGENZA SPIRITUALE

                        Il dolore dell’anima tra psicopatologia e misticismo

                                           Virginia Salles, Roma

                                                  (Estratto)

Elma sente delle voci e, come accade spesso in questi casi, mi dice di essere malata e porta con sé la sua diagnosi psichiatrica, ma la sua storia mi appare sempre di più come la descrizione di una crisi spirituale che in Oriente sarebbe stata definita “il risveglio della kundalini”.

La sofferenza di Elma è tra le più enigmatiche e, direi, affascinanti che si conosca. Esiste un nesso tra il suo stato psichico, considerato di interesse psichiatrico, e le esperienze descritte nella letteratura spirituale-mistica? Naturalmente no, se consideriamo la psichiatria solo dal punto di vista della scienza positivista tradizionale. Ma esperienze come quelle vissute da Elma ci costringono a volgere lo sguardo in direzione degli abissi interiori, a scrutare l’infinito attraverso ogni lacerazione; ci costringono a rimanere faccia a faccia con qualcosa che finalmente vediamo ma che non sapevamo, qualcosa che solo ora si rivela.

Elma ha 45 anni e svolge con impegno un lavoro poco gratificante che non corrisponde alla sua preparazione culturale. I suoi occhi tristi esprimono una grande vitalità, cosa insolita durante un periodo di terapia farmacologica. Naturalmente, come avviene in questi casi, la donna non ricorda i sogni e si confronta quindi “a mani nude”, senza l’ausilio dei simboli onirici, con il buio più nero, il suo caos interiore – un caos “vivo” descritto dai mistici di tutti i tempi come “la notte oscura dell’anima”. C’è qualcosa nel suo stato psichico che ricorda la follia, negandola allo stesso tempo, così come qualsiasi altra categoria diagnostica tradizionale. Le radici della “malattia” di Elma non vanno cercate in ambito clinico, tra i manuali di diagnosi tradizionali, ma nella sua sete esistenziale, sete che appartiene ad ogni essere umano. Possiamo comprenderla e aiutarla nel difficile compito di canalizzare la sua traboccante energia verso un autentico progetto di vita solamente se riusciamo a guardarla con empatia e accettazione incondizionata – con totale accoglienza, soprattutto di tutto ciò che proviene dal buio e dal silenzio, a cui non viene data parola o espressione.

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Draghi e principesse

Le potenti immagini simboliche che la incalzavano e, in particolare, le voci che Elma sentiva, sembravano provenire da un mondo altro, estraneo alla sua vita, un mondo oscuro e minaccioso che mi  faceva venire in mente una frase del poeta R. M. Rilke: “I draghi della nostra vita sono principesse addormentate che attendono semplicemente di essere risvegliate”. I draghi di Elma appartenevano al suo mondo emotivo, erano parti di sé, le sue stesse potenzialità creative che risultavano disturbanti in quanto non riconosciute e integrate nel resto della personalità. Queste immagini/voci, benché apparissero del tutto estranee alla realtà oggettiva e alla vita quotidiana della donna, non erano il prodotto casuale di un disturbo, ma, in quanto “sintomi”, custodivano un significato profondo ed erano relazionati con il suo attuale percorso esistenziale ed evolutivo.

È possibile interrompere questo flusso di voci/immagini attraverso una terapia farmacologica e in alcuni casi persino produrre una condizione di apparente “normalità”. Nella pratica clinica questa è generalmente l’occasione per iniziare l’assunzione di massicce dosi di psicofarmaci con il conseguente progressivo allontanamento del “paziente” dalla possibilità di entrare in contatto con il proprio mondo interiore, la sorgente della vita psichica è l’unica cosa che potrebbe salvarlo.

Se invece di sopprimere i sintomi, iniziamo a prestare la dovuta attenzione a questa particolare forma di attività psichica, se ascoltiamo la sofferenza e l’angoscia come aspetti di una soggettività più ampia e complessa, alla persona che si trova nello stato psicotico viene restituito un significato del tutto diverso che trasforma radicalmente la natura e la stessa fenomenologia della sua “malattia”. Per chi vive questo travaglio psicologico è un sollievo sapere di trovarsi in uno  stato di coscienza non ordinario ma legittimo e che queste tempeste interiori non solo sono portatrici di senso, ma soprattutto tendono verso il superamento della sofferenza esistenziale e la riorganizzazione della vita psichica.

 

Non solo sintomi

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Una “malattia mentale” dovrebbe essere definita non solo dai sintomi, ma anche dalle sue cause e, in particolare, dai suoi “scopi” dal punto di vista esistenziale. Oggi la diagnosi si basa solamente sui sintomi. Purtroppo in campo psicoterapeutico non esiste una documentazione esauriente circa l’utilità e l’esito dei trattamenti analitici che non agiscono solamente sui sintomi ma indagano sulle possibili cause, sul “perché” e persino sugli “scopi” della sofferenza dal punto di vista dell’evoluzione della persona. Trattamenti questi che favoriscono un processo di autoconoscenza e di profonda trasformazione interiore.

Come ci ricorda Michel Foucault nel suo libro Storia della follia nell’età classica, nella storia dell’umanità i cambiamenti significativi e il canone archetipico hanno sempre avuto origine dall’attività creativa di individui “anomali”. Scrive Foucault: “Persino quando l’individuo è patologicamente sopraffatto dall’attività spontanea dell’inconscio collettivo e con la mente sconvolta proclama la volontà del transpersonale, esso viene con profonda intuizione considerato come un pazzo sacro…”[1].

Prima di chiederci se un determinato “paziente” sia o meno “normale” sarebbe meglio chiedere se è “normale” l’ambiente nel quale vive e la vita che conduce. Nel mondo della pubblicità, dell’efficienza e dell’omologazione, a chi non si adegua ed “esce fuori” di testa, vengono somministrati potenti farmaci dai pericolosi effetti collaterali. Mi domando se la sensazione di essere perseguitati, che conosciamo così bene – anch’essa un sintomo da curare – non sia, in certi casi, una sensazione più sana di quanto sembri e spesso anche adeguata ad un contesto nel quale viene spudoratamente calpestata l’essenza e la dignità umana.

All’apice dell’esperienza intensamente emotiva descritta da Elma, i rigidi confini tra se stessa ed il resto del mondo erano completamente svaniti e lei era stata inondata da un sentimento di completezza e di appartenenza a qualcosa di più ampio e universale che non aveva mai conosciuto prima, insieme a ciò che lei definiva “l’apertura del cuore”. Elma per la prima volta nella sua vita aveva provato ciò che lei definisce Amore con la A maiuscola e si emozionava solamente a raccontarlo. Questo stato di coscienza dal punto di vista psicologico rappresenta l’apertura ad una più profonda dimensione esistenziale e dal punto di vista della letteratura spirituale una vera e propria “benedizione”, un “bacio di Dio”.

Nella cultura psicologica tradizionale, questo tipo di esperienza non viene mai contemplato. Non abbiamo, in generale, gli strumenti per comprendere ed elaborare lo stupore, la meraviglia, ma anche lo struggimento e l’inevitabile sofferenza e perdita dei punti di riferimento di chi attraversa “la soglia”. Siamo culturalmente impreparati a vivere ciò che è la più recondita aspirazione di ogni essere umano.

La maggior parte delle persone sembra sentire più o meno costantemente la rigida distinzione fra il proprio io e l’ambiente esterno e un sentimento indefinito di “mancanza” di qualcosa di fondamentale. Liberarsi da questa sensazione è come guarire da un “malessere cronico” che non si sapeva neanche di avere. E questa liberazione è seguita da un senso di leggerezza e di benessere paragonabili all’essere alleviati dalla stretta di una camicia di forza. Il grande paradosso è che, quando si trascende questo stato di sofferenza esistenziale, agli occhi degli “altri” si sembra “malati” e si viene etichettati come tali, mentre nel profondo si ha la consapevolezza di aver semplicemente iniziato ad esistere. Naturalmente il senso immediato di euforia e di estasi tende ad attenuarsi nel corso del tempo, ma l’assenza definitiva della rigida separazione tra se stessi e il mondo entra a far parte, definitivamente, della struttura stabile della propria esperienza soggettiva. Che l’estasi un po’ alla volta si attenui non è tanto importante quanto il fatto che scompare quella brama struggente verso l’Unione. Brama che solitamente viene travestita da smanie di potere, dipendenze da relazioni o dalle solite rivendicazioni egoiche – un tentativo di compensare la cronica frustrazione del vivere in un circolo vizioso, come un criceto imprigionato nella ruota.

Mi sono tornate in mente le parole di Michel Foucault nel suo libro Storia della follia nell’età classica: “Al polo opposto di questa natura di tenebre, la follia affascina perché è sapere. Essa è sapere in primo luogo perché tutte quelle figure assurde sono in realtà gli elementi di un sapere difficile, chiuso, esoterico. Queste forme strane sono situate, di primo acchito nello spazio del gran segreto… Il folle, nella sua innocente grullaggine, possiede questo sapere, così inaccessibile e così temibile. Mentre l’uomo di ragione e di saggezza non ne percepisce che degli aspetti frammentari e perciò tanto più inquietanti, il folle lo porta tutto intero in una sfera intatta; questa palla di cristallo, che per tutti è vuota, è piena ai suoi occhi di un sapere invisibile”[2].

Elma ha attinto a piene mani da questo “sapere invisibile” e la sua ricerca di conferme di ciò che viveva e comprendeva l’ha trasformata in una “divoratrice di libri”, dai quali traeva una sempre più profonda conoscenza delle cose dell’anima.

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Nei sogni seguenti sono presenti simboli della trasformazione appartenenti a differenti tradizioni: alchemica, sciamanica e orientale.

La sognatrice brucia in un fuoco immenso, ma non sente dolore. Poi vedi che dal fuoco esce un cerchio di fiamme con tante scintille. Dal centro del cerchio emerge il corpicino di un bambino appena nato.

Il fuoco, simbolo di trasformazione per eccellenza è associato alla forza della passione e al risveglio dell’energia creativa e spirituale.

Si lava il viso in un lago in mezzo ad una foresta. Vedi le piante e gli alberi che si animano e “ballano” come esseri umani. Poi vedi che dagli alberi escono due spiriti, a forma di cavallucci marini uno maschile, l’altro femminile che si abbracciano e nell’abbraccio si trasformano in una farfalla di luce.

La sognatrice è una sirena che fa l’amore e mentre fa l’amore si disintegra. Poi s’immerge nell’acqua per riprendere la sua forma di prima.

Un giorno Elma mi dice che il giorno prima, mentre meditava era stata inondata di un Amore immenso che la riempiva completamente: una sensazione talmente forte che temeva di non riuscire a sopportare. Era come se il calore che percepiva dentro di sé si trasformasse in luce e la facesse sentire, in qualche modo misterioso, legata al Sole e ad una Vita più grande.

Vede un serpente nero attorcigliato intorno a sé. Poi il serpente rientra dentro alla stessa spirale formata da lui e se ne va… Non prova dolore né paura, si senti tranquilla. Si sente come dentro a un rito, un rito sacrificale: vedi una sciabola che le penetra il petto, ma non prova paura né dolore, ma pace.

Sogna la croce di Cristo avvolta in una luce immensa.

Nel simbolo della Croce il braccio verticale si inserisce in un punto centrale del braccio orizzontale che è associato alla dimensione fisica. Il braccio verticale che “tende verso il cielo” rappresenta il processo di morte-rinascita e la trascendenza verso uno stato di coscienza più elevato. La morte iniziatica delle tradizioni filosofiche-spirituali avviene nel preciso punto di intersezione del braccio verticale con la linea orizzontale. Saper “realizzare la Croce”, soggettivamente, implica il fermarsi e l’ascendere contemporaneamente, quindi il “morire” e il risorgere in una nuova espressione di vita.

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Passaggio epocale

Da alcuni decenni ormai stiamo vivendo collettivamente un travagliato periodo di transizione culturale. La nostra domanda di significato e i nostri bisogni interiori non trovano adeguate risposte nell’attuale visione del mondo unilaterale, caratterizzata dalla scissione sempre più profonda fra spiritualità e religione istituita. Il dramma dei nostri giorni è che sempre più persone, indubbiamente “di buona cultura”, non hanno la benché minima idea del significato degli avvenimenti che accadono loro. Manca un “nesso” con la propria Anima – l’unica dimensione psicologica capace di offrire all’essere umano il senso profondo del suo “essere nel mondo” – insieme alla capacità di contemplazione e di “meraviglia” nei confronti della realtà, che sia privo di “utilità”.

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Sono sempre più numerose le persone che, in questo modo, hanno trasceso il dualismo “materia-spirito” o “corpo-anima” e sperimentano una parte del proprio essere che non è separato dal resto dell’universo. Questo tipo di esperienza di “Unione” porta con sé una forma di conoscenza non più sterile ma, al contrario, intrisa di esperienza personale, vera e propria “arte di vivere” insieme alla consapevolezza che molto spesso il nostro comportamento è motivato dal tentativo di lenire il dolore di questa “separazione”. Questo vissuto di Unione e Totalità viene di solito descritto come qualcosa di talmente sconvolgente dal punto di vista cognitivo ed emotivo da mandare in pezzi non solo il nostro personale sistema concettuale, ma un intero paradigma di riferimento culturale.

Da un numero sempre crescente di persone che vivono questo tipo di esperienze, sta emergendo attualmente, in seno alla nostra cultura, una nuova visione del mondo e dell’essere umano che pur essendo spirituale non può essere inquadrata nell’ambito delle istituzioni religiose. Visione che richiede un tipo di conoscenza non convenzionale, che offra una comprensione diretta della vita che sia paragonabile, per esempio, al taoismo in Oriente: una cornice concettuale più ampia e complessa non solo della psiche, ma della nostra stessa posizione di esseri umani in relazione alla totalità (al “Cosmo”). La nostra tradizione spirituale ebraico-cristiana identifica il Dio Assoluto con l’ordine convenzionale logico e morale. Questa identificazione viene definita da Allan Watts “una formidabile catastrofe culturale” in quanto non solo scoraggia la libertà dell’essere umano, ma ne ostacola l’evoluzione.

Visione “religiosa” più ampia e moderna è quella della “religione” intesa come responsabilità morale dell’uomo di fronte alla propria unicità. Visione che appartiene, tra gli altri, a Jung, Fromm, Reich, Rudolf Steiner, Pietro Archiati ecc… “Se per l’uomo non è sacro l’essere umano, non troverà nulla a questo mondo che possa essere definito ‘religioso’”, sostiene Archiati[3]. La religione dell’essere umano vista quindi come la pienezza dell’uomo stesso.

Ciascuno di noi è parte di un organismo più grande, l’Umanità, in seno alla quale siamo chiamati, come membri individuali, a svolgere la nostra particolare funzione. Scrive Archiati: “Se io ometto di attuare sulla Terra l’umano che si esprime nell’unicità del mio essere, l’umanità viene impoverita, perché le viene a mancare quel modo di irraggiare l’umano che può promanare soltanto da me”[4].

In momenti di transizione come questo che stiamo vivendo è necessario abbandonare il primato dell’ortodossia in ogni campo del sapere – per cui il “credente” è colui che crede a determinati “dogmi” e che obbedisce devotamente ad una gerarchia – e promuovere l’autentica ricerca interiore. L’essere umano è oggi chiamato a trascendere la “volontà di potenza” e di controllo dominante nella nostra cultura e ormai anacronistica, a favore del “ricordo di Sé”; a superare la logica dell’utile e dell’interesse personale a favore della realizzazione di un nuovo modo e di essere nel mondo, un mondo nel quale tutto è interconnesso.

 

 

 


[1] Foucault, M., Storia della follia nell’età classica, BUR Saggi, Milano, 2004, p. 327.

[2] Foucault, M., Storia della follia nell’età classica, BUR Saggi, Milano, 2004, p. 27.

[3] Archiati, P., Guarire ogni giorno, Edizioni Archiati Verlag e K., Memmingen (Germania), 2007, p. 117.

[4] Ibidem, p. 118